Due uomini, due artisti in due epoche diverse e due linguaggi differenti, un pittore e un fotografo. Un’unica terra, quella dell’Emilia e il racconto del quotidiano in comune. Per Giorgio Morandi (Bologna, 1890 – Bologna 1964) e Luigi Ghirri (Scandiano 1943 – Reggio Emilia 1992) le strade si intersecano e si discostano continuamente formando però una rete di connessione da cui è interessante farsi intrappolare.
Perché, in questo contesto, parlare di questi due personaggi? Perché osservando le loro opere, tra fotografie e tele, tra video e incisioni possiamo comprendere l’importanza del quotidiano intorno a noi.
Luigi Ghirri era il fotografo del quotidiano, del banale e di tutto quello che affolla i nostri giorni e che noi, per scarso interesse o per abitudine, non osserviamo più. Per il fotografo emiliano il tema del paesaggio è assai frequente ed è trattato quasi come opera d’arte diffusa; per tutta la vita non ha mai smesso di indagarlo facendone emergere gli strati più sepolti con immagini universali. Egli restò legato estremamente al paesaggio italiano e in particolare a quello della sua Emilia. Penetrando da un lato nel paesaggio fisico e dall’altro nel paesaggio umano scopriamo un luogo tutt’altro che micro ai limiti della rappresentazione dove Ghirri realizzava veri e propri ritratti di luoghi. Ci sono però immagini in cui troviamo un punto di contatto tra i due artisti come le fotografie scattate dallo stesso Ghirri all’interno dello studio di Morandi. Questi scatti dimostrano che pur in assenza di persone è stato possibile mettere in luce l’immagine di un interno come luogo di interiorità e che lo sguardo è un mezzo per giungere incontro alle cose. Questo rapporto e queste immagini ci fanno comprendere molto riguardo alla personalità di Morandi, sul suo modo di dipingere, sul perché sceglieva certi soggetti piuttosto che altri, sul suo stare in un atelier e sulla trasformazione che in esso sperimentava: trasformazione reciproca dell’uomo sullo spazio e dello spazio sull’uomo. Anche se in queste immagini non troviamo Morandi in carne ed ossa, abbiamo di fronte un preciso e sincero ritratto. Morandi, pittore del quotidiano, delle piccole cose, pittore seriale dotato di tranquillità e pazienza non comuni si curava con il suo fare arte. Questa pace l’andava proprio cercando e l’ha inseguita per tutta la vita: quante volte nelle sue lettere ha dimostrato di volere esclusivamente “un poco di pace per il mio lavoro, nient’altro”. Pace che cercava e che continuamente la trovava, nel fare artistico, nella messa in scena di composizioni apparentemente tutte uguali ma ognuna testimone di un rituale umano: l’arte legata alla quotidianità delle cose. Le sue tele, come d’altronde le sue incisioni, possono essere il simbolo di quello stimolo che mette in moto la ricerca del sé. In questo senso il pittore, come il fotografo, ci hanno mostrato come nella vita non c’è niente di comune, tanto meno le cose comuni che si nascondono nei nostri ambienti più vissuti e intimi, e lo hanno fatto ritraendo cose banali svelandoci la loro non banalità. Sono ritratti di oggetti e non semplici rappresentazioni, oggetti che fanno parte del nostro orizzonte quotidiano, dei nostri attimi giornalieri anche a decenni di distanza. Una bottiglia, un vaso di fiori, una scatola di latta o una tazza, sono tutti oggetti del comune che però assumono grande importanza una volta che doniamo loro attenzione. Dando loro considerazione abbiamo la possibilità di pensare anche un po’ a noi stessi e al vivere il nostro tempo. Ciò succede anche con Ghirri: una leggera nebbia in mezzo alla pianura, una piazza in cui passiamo tutti i giorni, biciclette appoggiate al muro, una spiaggia, una cartina. Tutti luoghi presenti e situazioni costanti. Tutte queste cose diventano quasi sacre e ci suggeriscono che tutto può permetterci una ricerca di equilibrio. Equilibrio psichico e fisico, in poche parole il giusto bilanciamento per stare al mondo. Questo lo sentiamo ancor di più nelle immagini sopra citate dove il pittore e il fotografo si stringono metaforicamente la mano.
Ora, nella contemporaneità dove scatti e click sono alla portata di tutti, dove la creazione di un’immagine talvolta perde quel rituale di curiosità e di scoperta e dove opere e artisti saturano lo spazio visivo, occorre forse recuperare tranquillità espressiva. L’arte per essere terapeutica, per prendersi cura del sé, ha bisogno di aprire gli occhi anche verso l’usuale, il quotidiano poiché è proprio questo fattore che ha sempre la capacità di stupirci.
Testo di Francesco Serenthà