Cromuseo

In cima a questa imponente scalinata, della quale mi trovo ai piedi, si aprono le porte di un museo. Non è un palazzo storico né un palazzo signorile, ma resta comunque un bell’edificio, armonico con il contesto, con la sua piazza antistante, con le strade di periferia che lo circondano e con le persone che ogni giorno lo incrociano.

Varcata la soglia, appare agli occhi un grande salone attraversato dalla bella luce di questo giorno assolato, dove alle pareti, e in parte anche sul pavimento, si trovano esposte installazioni artistiche. È il salone centrale e sembra essere dedicato ai lavori più grossi, tutti mossi da gesti pittorici. Nessuna scritta, nessuna didascalia ridondante e apparentemente nessun autore. Lo sguardo incontra subito forme e colori ma non solo. Incontra anche i gesti e i pensieri che hanno anticipato i segni che vedo tracciati sui vari supporti. Rosso, giallo e blu che si impastano su una serie di riquadri facendo nascere altri colori; un tappeto di carta con una mappa dalle strade bianche e gli isolati multi-colore; composizioni con lettere e misteriosi simboli; triangoli di terra, acqua, fuoco e aria.

C’è un passaggio in fondo alla sala che conduce a un’altra di dimensioni più ridotte. Tutto intorno alle pareti sono disposti dei piedistalli, parallelepipedi alti e bianchi. Sopra strane sculture, sempre bianche, che sembrano composte da piani e mattoncini che si intersecano e si incrociano, si sovrappongono e si superano guadagnando in altezza e assumendo un aspetto tutt’altro che stabile. Un soffio di vento potrebbe tranquillamente farle traballare e rovinare al suolo. Al centro della sala una montagna degli stessi mattoncini di diverse dimensioni: evidentemente io e qualsiasi altro visitatore siamo invitati a comporre una scultura instabile, provare a montare e smontare, impilare e costruire. Infatti qua e là per la sala, sul pavimento ne vedo alcune abbozzate, alcune crollate e altre, più stabili, che resistono ancora.

Oltrepassata la sala delle sculture mi ritrovo di fronte ad un lungo corridoio con il soffitto a volta e in fondo una scala di cui si vede l’inizio ma non la fine. Ai lati di questo corridoio si aprono delle micro-stanze e da ognuna di esse si sente provenire un suono. In questi piccoli “regni” musicali, strumenti e parole si intervallano e si sovrappongono, composizioni e pattern, ritmi e canzoni. Ogni stanza porta l’udito su toni e contesti differenti. Voci adulte e bambine cantano di tribù e di viaggi, strumenti diversi descrivono sensazioni e immagini disparate, violini, tamburi, flauti e tanti altri. Nell’ultima stanza invece che esserci suoni ci sono strumenti che credo si possano prendere e provare a suonare. Pizzicando le corde di una chitarra però sento che dopo qualche secondo le stesse note che ho suonato sono trasmesse da casse posizionate agli angoli tra le pareti dove iniziano a rincorrersi e a rimbalzare. Prima le sento a destra, poi in alto e poi dietro di me. Esse si mischiano ad altre note di strumenti sempre da me suonati nel frattempo e compongono nella stanza una musica particolarmente strana e solo mia in un gioco di rincorsa, rimbalzo, alternanza e sovrapposizione che mai avrei immaginato.

Arrivato alla conclusione di questa specie di galleria di suoni inizio a salire la scala che mi conduce al piano superiore dove un altro salone è riempito con altri lavori di natura perlopiù pittorici. Su tutti mi colpisce una grande pannellatura a parete che riproduce uno strano mappamondo. Insolite terre emerse che ricordano forme e sagome di oggetti già conosciuti ma che mischiandosi e incontrandosi tra loro formano continenti immaginari.

Passato questo salone mi trovo in una nuova galleria insieme ad altre sale. Si capisce che cambia il tipo di fruizione: niente più opere ma fotografie e scritte. Immagini che raccontano chi ha fatto e come è stato creato tutto ciò che ho appena visto nel museo, gesti e azioni in contesti differenti, parole e titoli di lavori, di musiche, di attività. Testi e articoli che parlano di progetti, di tecniche, di storia dell’arte e musica, momenti e aneddoti su chi ha realizzato le opere. Con queste ultime sale si chiude il cerchio, si spiega il contesto e si riallacciano pitture, musiche e sculture a queste immagini e scritte. Si inquadra l’operato dell’associazione Croma e il suo impegno per promuovere l’arte e la musica per il bene. Posso capire le tecniche usate e il perché, comprendo come certi intenti artistici o musicali sono nati e crescendo hanno cambiato a volte rotta. Un’ultima sala attira la mia attenzione prima di uscire dal museo: apparentemente vuota porta sulla soglia la scritta “Lavori in corso”.

Utilizzata spesso in questo breve testo, la parola arte è, come tutte le altre: vagabonda. In queste righe non c’è la volontà e la pretesa di appiccicarla ai tanti lavori che Croma ha prodotto in questi anni. Ma l’esperienza immaginifica di avere un luogo dove esporre gli elaborati, risultati dai processi delle attività artistico-musicali, è troppo bella e ha avuto il bisogno di essere tradotta in queste parole. Chissà se questo e tanto altro un giorno potrà avverarsi.

Francesco Serenthà

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