Si discute spesso di come il fare artistico possa essere occasione di benessere e attività terapeutica in potenza. Proviamo a calare il discorso nel contesto parallelo a quello della pratica ovvero quello dell’osservazione e della conoscenza. Lasciamo solo per un momento da parte i laboratori, le attività o i progetti e incontriamo ora gli artisti. Per addentrarsi in questa foresta ritengo sia necessario farlo però in punta di piedi, come se ci stessimo muovendo su un terreno fragile e instabile. Delicati con i piedi di nuvola volteggiamo sull’arte e su quella sottile lastra di ghiaccio che ci separa dallo sprofondare nell’immagine di un mondo a parte, un mondo sacro e inarrivabile. Riprendo il pensiero di Gombrich quando rifletto su come in realtà non esista l’arte ma esistano solo gli artisti e il loro fare: esseri umani che dalle pareti di una grotta alle insegne pubblicitarie hanno lavorato con l’immagine. Arte è una parola errante che nei secoli ha navigato in diverse acque ed è approdata in diverse terre e ciò ci fa pensare che non ne esiste una con la “A” maiuscola e una con la “a” minuscola. Proprio per questo ora non voglio parlare dei soliti personaggi dell’arte, Leonardo, Van Gogh o Frida Kahlo già consumati e laceri da continue parole e luoghi comuni, dalla mercificazione del loro nome non a favore della cultura, ma del soldo. In questo momento mi interessa una figura assai meno nota nel panorama dell’arte e forse chiamarlo artista è un po’ come tradirlo, come confezionarlo dentro una scatola, come rivestirlo di un velo che nasconde il lato umano e terreno ed eleva sul piedistallo dell’arte. Quel piedistallo che tutte le volte in cui ci si inciampa fa più male che bene. L’arte parte dall’essere sostanza umana e penso sia sbagliato innalzarla a qualcosa di esclusivo poiché tutti siamo umani.
Umani come lo era Gino Sandri che nasce nel 1892 ed inciampa nel mondo dell’arte fin da giovane. Dopo un inizio promettente cade sotto i colpi di continui ricoveri in ambienti manicomiali che dagli anni venti lo accompagneranno fino alla morte nel 1959. Le scie della follia che lo circondano non gli impediscono però di comporre una grande collezione di ritratti e scene dal grande valore storico-estetico e documentaristico. Spesso questi disegni di povera natura e di una lucente purezza sono stati definiti come disegni dall’interno. Sandri non era pazzo e, con lucidità estrema, ferma sulla carta volti e mani dai tratti nervosi o persi, soggetti avvolti in aloni di malattie insondabili, ritratti che parlano esplicitamente del clima che si respirava all’interno di stanze manicomiali. Ritratti che parlano anche perché su questi fogli di blocchi o di recupero si va oltre al disegno poiché vengono annotate anche parole e nomi, diagnosi e dati riferiti al soggetto. Addirittura nel 1941 propone a Hoepli un manoscritto con la volontà di divulgare le problematiche legate ai mondi della follia e della psichiatria. Aneddoti di vite vissute tra le pareti di un manicomio e le storie di mestieri e lavori. Racconti di dolore e sofferenza talvolta scritti anche in prima persona e che tanto si accostano a terzine dantesche. Scene di intimità umana dispiegate e messe a nudo, rese tratto di graffite o campitura di pastello. È la commedia umana che si fa strada tra le pagine schizzate con linee nodose e libere, segni freschi e agitati che si dimenticano di regole proporzionali e limiti tecnici che sono lì, in fondo, per essere superati. Dall’alcolista pollivendolo al demente elettivo per stanchezza, dalle scene di camerate lacrimanti d’angoscia a situazioni riprese in esterno, dall’internato per violenze coniugali all’artista ipocondriaco: Sandri scandaglia l’ambiente e il suo triste quotidiano con tratti veloci atti a descrivere quel che vede. Il disegno e le sue abilità lo portano anche a chiedersi: ma come ambienti di scempia fannullaggine (i manicomi) possono ricreare volontà e ardore di ottimismo? Anche lui quindi si chiede come un ambiente poco stimolante sotto il profilo umano possa creare del benessere e possa riattivare individui sconnessi dal quotidiano. Questo valeva per i manicomi ma mi spingo a dire che vale per tutto: come può un ambiente stimolarci ad essere partecipi se quello stesso infligge su di noi un’aura negativa? Ambiente e persona vanno di pari passo. Sandri si aggrappa al suo saper fare per non cadere nell’abisso della follia dove il confine tra stranezza e normalità è incerto e soprattutto deciso da altri. Egli non vuole dimostrare nulla a nessuno, ma utilizza l’arte per mantenere compatti i suoi pezzetti di umanità, come luce che contrasta le ombre e il sonno della ragione. E questo è stato l’insegnamento personale che Sandri mi ha concesso: l’ambiente che mi circonda fa parte di me e l’arte può metterne in moto il dialogo. Aver avuto l’occasione di osservare i suoi lavori dal vivo è stata un’esperienza fondamentale per riflettere su come il fare artistico possa portare alla conoscenza di se stessi e al benessere.
Nella foresta dell’arte di esempi se ne possono trovare molti, momenti in cui essa esplora la persona e il fare si trasforma in possibilità. Artisti conosciuti o meno. Chissà se poi in prossimi articoli se ne potranno incontrare altri.
Testo di Francesco Serenthà