Al termine di un’attività di Munari che viene descritta in uno dei suoi libri più celebri, avviene la distruzione del lavoro. La grande opera in carta, assemblata poco tempo prima, viene sollevata dal pavimento e letteralmente strappata dai suoi stessi creatori. È un gesto forte e altamente rischioso perché mette in gioco l’affezione che un individuo ha per il proprio prodotto, per l’operato delle proprie mani. Pericolo in aumento poi se il creatore è un bambino. Giustamente l’artista prende i suoi rischi e spiega infine che così facendo ciò che è stato creato non diviene modello da copiare e ricopiare, ma il risultato è subordinato al metodo progettuale. Esso è ciò che resta e che permetterà di costruire altre attività e altre opere con la medesima efficacia in contesti differenti, in gruppo o individualmente e con risultati sempre diversi. L’opera o più propriamente il risultato è al servizio del processo che stimola la creatività. Questo mi sembra un ottimo spunto per far partire una riflessione sul rapporto tra processo e risultato e cercare di capire cosa noi di Croma intendiamo come opera. La subordinazione, espressa in precedenza, del risultato al processo non è intesa come inferiorità in fatto di importanza del primo verso il secondo: l’opera finale, se così la si vuole chiamare, non è secondaria ma è una diretta conseguenza dello svolgimento e di come questo viene eseguito. Neanche nel mondo di Croma la restituzione del processo è meno importante del processo stesso. Essi sono due anelli della medesima catena: legati fortemente l’uno all’altro e se un anello cede, la catena si spezza e non svolge più la sua funzione.
L’atto creativo è fondamentale ed esso va accompagnato con gli strumenti giusti e il corretto numero di esperimenti, con pensieri fondati sull’esperienza e risultati visivi ben evidenti. È per questo che riteniamo l’esperienza artistica e quella musicale lunghi percorsi che stridono fortemente con la scialba idea del lavoretto. Lavoriamo nelle scuole non per far produrre ai bambini e ai ragazzi il lavoretto che qualunque insegnante sarebbe capace di proporre. Siamo professionisti in fondo! Niente lavoretto per Natale, niente per Pasqua. E a modo nostro passiamo sopra l’asfissiante esigenza del genitore di vedere arrivare a casa il figlio con un piccolo prodotto, risultato delle sue mani. Già il solo usare la parola lavoretto (e viene usata per davvero!) sminuisce l’individuo che l’ha realizzato. Molti di questi lavori non danno di certo prova delle abilità artistico-creative del bambino/ragazzo e non hanno nulla a che fare con il metodo progettuale né con l’arte. Esso è un piccolo prodotto, non solo per la scala dimensionale, ma anche per la scarsa presenza di creatività e di pensiero d’azione, per la mancanza di basi utili per lavori e progetti futuri. Resta solo un elaborato comodo, utile alla realizzazione di un oggetto da comodino o da cestino. In molti casi ho visto la realizzazione di oggetti prefabbricati dove l’apporto manuale era minimo (magari solo colorare nei contorni o incollare la pasta su una sagoma stampata). L’opera, o meglio, l’elaborato finale come lo intendiamo noi è un percorso che porta ad un cambiamento che possa essere il più possibile duraturo e non ad una facile ed effimera soddisfazione. È un percorso perché al risultato finale si giunge volta per volta aggiungendo pezzo per pezzo e opera non vuol dire solo prodotto ma comprende anche la corale d’azioni che porta ad esso. Non c’è una regola per la ricerca del cambiamento ed esso può essere minimo o più consistente, individuale o gruppale. Cerchiamo inoltre un elaborato che abbia una rilevanza estetica e una linea di senso con il pensiero che ha portato al risultato: i gesti producono segni e queste due entità devono giocare tra di loro in maniera armonica. Si impara e si cresce dal fare e dal suo risultato ovvero si muta, si cambia prospettiva, ci si sposta da un punto. A volte non basta un’azione ma ce ne vogliono due, o forse molte di più.
Le parole che danno il titolo a questo breve testo non vogliono essere atto di prepotenza o addirittura arroganza. Non ci consideriamo migliori di altri se facciamo le cose in maniera diversa anche perché non siamo i primi a farlo né saremo gli ultimi. Non ci consideriamo unici. Anche il nostro modo attuale di vedere le cose è soggetto alle modifiche del tempo e con gli anni e l’esperienza sarà sicuramente come un fiume che cambia percorso metro per metro, incontrando nuovi affluenti e correnti. Di sicuro queste vogliono essere parole che segnano un atto di coscienza per perseguire una strada che riteniamo possa condurre al nostro scopo: fare dell’arte e della musica mezzi e strumenti per la cura e la salvaguardia dell’individuo.
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Per saperne di più su questo tema guarda (o ascolta) il settimo episodio di RGB, il podcast di Croma