È da un po’ di tempo che pensavo di scrivere qualcosa su una figura dell’arte che apprezzo molto, riflessioni o filamenti di pensiero su un fotografo a noi contemporaneo conosciuto in tutto il mondo. Cercavo di trovare un legame tra il suo operato, la sua storia di artista e uomo e l’arte terapeutica. Per dir la verità un legame c’era già e più profondo di quanto potessi immaginare: si trattava solo di dargli forma e comporre le parole dando senso ai miei pensieri.
Questo fotografo si chiama Sebastião Salgado e in precedenza ho già avuto occasione di confrontarmi con il suo lavoro per motivi di studio e non solo. Questa volta però è diverso: vorrei parlare di come il mondo naturale, la natura con la N maiuscola ha cambiato il suo modo di fare, o forse, ha solo portato a galla un aspetto della sua storia che trovo si leghi molto con il mondo di Croma. Proprio la natura e l’amore per il pianeta hanno avviato in Salgado una rinascita artistica: una personalità affogata nel mare di violenza, povertà e dis-umanizzazione che per tanti anni ha ritratto nei suoi scatti e che poi trova la cura per il proprio corpo e la propria anima nella natura e nell’arte della fotografia. L’arte si rivela l’antidoto più efficace a se stessa. L’arte che provoca la coscienza ma che è anche capace di riportarla in asse. È infatti dopo i tanti reportage in giro per il mondo che il fotografo umano, stanco di veder tanta sofferenza, decide di smettere con la fotografia, di smettere di viaggiare e di rapportarsi con quel mondo di dolore per rinchiudersi nella sua terra. Un gesto vigliacco potrà sembrare ad alcuni, ma forse un gesto pienamente umano. La capacità è stata quella di guardarsi intorno e riconoscere che il tesoro, la cura per se stessi era proprio lì. Bisognava partire da vicino, guardare la sua terra, il suo mondo e se stesso: tutto ciò aveva bisogno di cura. È stato come un innesco che ha fatto scattare una molla. Aver visto negli anni la propria terra spogliarsi e impoverirsi di qualsiasi elemento naturale lo ha segnato profondamente. Il terreno che rinsecchisce e i ruscelli che svaniscono, le piante e gli animali che muoiono. Tutto ciò ha impressionato la pellicola del suo sguardo. Rimboccarsi le maniche, lui con sua moglie, per ripristinare ettari di foresta e moltitudini di specie tra animali e sottobosco è stata la soluzione. Soluzione che si è presa carico non solo del problema naturale del paesaggio, ma anche del problema più intimo dell’uomo fotografo.
Il gesto di Salgado nasce in conduzione diretta con l’esperienza. Non è stato un modo di fare nato sull’onda green che da qualche tempo sta investendo la società, un’onda che tante volte sembra composta più da gesti di facciata che di sostanza. Dopo tutto ciò entra in gioco la fotografia: la fotografica che dopo essersi inabissata, in Salgado, per via dell’orrore del mondo ritrova la luce e si rivela come potente mezzo artistico capace della cura del corpo e dell’anima. In questo momento la fotografia diventa un bisogno. Un bisogno di sentire un click e di potersi rispecchiare nell’immagine che si ha creato. Infatti la fotografia, quella che scattiamo, siamo noi. Siamo ciò che con quel gesto abbiamo deciso di dire e quello che abbiamo invece deciso di tralasciare. E no, non sto parlando di quelle milioni di immagini usa e getta che ogni minuto vengono prodotte e consumate sui social come se in un futuro prossimo dovessimo cibarci unicamente di questo. È vero che anche queste immagini sono lo specchio e il ritratto della società, ma ora sto parlando di profonda connessione tra uomo e gesto artistico. Ed è così che Salgado, dopo essersi preso cura della sua terra e insieme di se stesso, decide di continuare e partire per un nuovo progetto che lo porta in giro per tutto il mondo. La cura della persona continua così con immagini scattate in luoghi dove la natura sembra essere ancora sovrana e l’ingordigia dell’uomo pare non sia ancora arrivata. Per dir la verità la presenza dell’uomo in alcuni scatti c’è, ma è un’umanità primordiale, agli antipodi dell’esistenza, laddove esistono tribù, agglomerati di capanne, strumenti e utensili primitivi. La ricerca di Salgado è una ricerca ai confini delle origini, un omaggio alla nostra bella terra, a com’era e a come potrebbe esserci più utile. Non è nostalgia o giudizio e neanche il voler creare in noi un senso di colpa, ma è un ritrarre e proteggere il senso globale della nostra vita su questo pianeta ovvero il pianeta stesso. Quelli ritratti da Sebastião, anche se lontani, sono i nostri orizzonti in quanto cittadini del mondo.
Testo di Francesco Serenthà