Chi non ha mai collezionato qualcosa, almeno per qualche tempo? Perché si raccoglie di tutto? Cosa ci spinge ad accumulare articoli rari quanto comuni, preziosi quanto dozzinali? Alla base di tutto c’è un ideale di completezza e perfezione. Non manca, soprattutto in alcune persone, una certa eccentricità e stravaganza, pignoleria e desiderio di catalogazione. Stiamo parlando dei collezionisti, persone comuni (forse anche noi stessi), con l’hobby della raccolta di oggetti: adesivi, francobolli, carte di caramelle, tessere telefoniche, ma anche battipanni, monete, modellini e aerei veri da combattimento. Sono pochi quelli che possono affermare di non aver mai fatto, da giovani o anche per breve tempo, una collezione. Oggetti raccolti in vetrinette stipate all’inverosimile, intere stanze occupate, scaffali gremiti fino a diventare spesso dei veri e propri musei.
La tendenza a raccogliere e conservare in spazi gremiti di meraviglia e stupore risalgono storicamente alla Wunderkammern: è la “camera delle meraviglie”, pratica diffusa dal ‘500 in Europa dove i nobili raccoglievano e conservavano oggetti straordinari o insoliti, naturali o artificiali. Questi “magazzini dello stupore” rappresentavano il primo tentativo di catalogare il mondo, rendendo possibile l’osservazione di tutto ciò che era ancora oscuro.
Lo stupore per la natura e per ciò che è “stra-ordinario” (ovvero il solito che stupisce) è un sentimento sempre attuale. Le conchiglie raccolte nel barattolo di vetro della marmellata, le cartoline impilate in una scatola in latta dei biscotti, ricreano un museo piccolo e portatile. Ognuno di noi ne avrà uno riposto nel cassetto o sopra uno scaffale tra libri e fotografie impolverate. Chi non prova sorpresa nel riscoprirlo e gioia nel riaprirlo per aggiungere qualcosa di nuovo alla sua mini collezione? La meraviglia per le piccole cose può veicolare il senso di appartenenza, motivare attraverso gli oggetti le persone che siamo. Questo è da sempre l’obiettivo che svolge il museo, come luogo deputato alla cura del patrimonio culturale dell’uomo.
Perché allora non pensare di mettere il museo in una presunta “scatola”? Può rispondere al desiderio di definire una selezione della selezione per ampliarne l’accessibilità. Si tratta di una pratica più recente per veicolare opinioni. Attualmente, kit di oggetti (originali e non) e materiali concessi in prestito dalle esposizioni per un breve periodo rappresentano uno strumento considerato efficace in diversi paesi, soprattutto in Gran Bretagna. Una proposta capace, secondo diversi studi, di facilitare l’esplorazione reale del museo, stimolando la curiosità e il dialogo degli osservatori in un contenitore protetto, intimo e diretto nell’osservazione immediata di ciò che è nella “scatola museale”, amplificandone a posteriori il ricordo di un’esperienza. Le chiamano loan box e consentono quindi di approfondire temi diversi di una collezione ufficiale e istituzionalizzata, rispondendo così anche a specifiche esigenze. Possono essere usati anche al di fuori delle scuole, (in strutture e servizi per persone con disabilità o anziani, ad esempio) e non solo grazie alla rimozione delle barriere fisiche e sensoriali che consentono; gli oggetti contenuti nei kit, infatti, possono essere manipolati e interrogati secondo tempi differenti da quelli concessi nello spazio pubblico nonché affiancati da specifiche attività. Questa proposta può facilitare la comprensione di alcuni oggetti poco accessibili, avvicinandoli e rendendoli al contempo reali. Le loan box (ma come potremmo chiamarle in italiano? “scatole per il prestito”?) possono ovviamente anche essere create autonomamente o quando elaborate dal museo stesso, possono rientrare fra le pratiche di collaborazione (più doverose che auspicabili) fra curatori ed educatori. Il kit quindi può essere un lasciapassare al museo fisicamente inteso come spazio stabile e contenitore di bellezza, o come restituzione finale della visita fatta.
In Italia sono poco diffuse, forse anche perché concepiamo spesso il sapere come informazione da veicolarsi quale pratica di testo; eppure, far uscire il museo dal museo, rinchiuderlo in una scatola e consegnarlo in altre mani significa certamente rimetterlo in gioco per offrire a tutti un’opportunità ulteriore. La proposta ovviamente chiama in causa anche il dibattito sul valore degli oggetti reali opposto all’uso delle copie, altra questione complessa da non sottovalutare.
Eppure, dal nostro punto di vista (noi di Croma ne abbiamo tanti da condividere!), il principio fondamentale a cui rispondere è sempre lo stesso: promuovere il coinvolgimento dei visitatori sollecitandone l’interesse, secondo un modello di rimessa in discussione e collaborazione continua che passa dal “fare insieme”. Il museo che esce dal museo, insomma, se da un lato sembra voler costringere le proprie ambizioni in una scatola, dall’altro amplia quella vocazione all’apertura auspicabile e necessaria anche prima del reale coinvolgimento.
Vittoria Pisani, Artista terapista e educatrice d’arte