La realtà ci offre costantemente occasioni per imparare qualcosa: talvolta anche nelle situazioni più inaspettate è possibile trarre linfa vitale per la nostra crescita come genitori, come professionisti, come esseri umani.
Ormai due mesi fa ha avuto luogo il 69° festival di Sanremo.
Una delle canzoni sicuramente che più è rimasta impressa, se non altro per la forte tematica trattata, è Argento Vivo di Daniele Silvestri, interpretata insieme al rapper Rancore. Il brano ha fatto breccia nella giuria sanremese, aggiudicandosi il premio della critica “Mia Martini” e il premio per il miglior testo. Tante cose si sono dette su questa canzone su cosa avesse voluto raccontare: di chi stesse parlando, adolescenza, iperattività, disagio giovanile ecc. Ciò che ci interessa, in questo caso, non è tanto scovare tutti i significati nascosti tra le righe del testo di Argento Vivo, né fare un’analisi del brano, quanto piuttosto mettere a nudo quelli che sono degli spunti di riflessione sul fare educativo, inteso come atteggiamento mirato alla crescita di una persona o di un gruppo.
È importante fare una premessa: ciò che una canzone trasmette, non dipende solo dal suo autore, ma è legata in modo imprescindibile anche all’ascoltatore. È proprio questo il bello di un prodotto artistico, che non ha regole necessarie, ma dei punti di partenza che l’autore stesso non è in grado di controllare totalmente.
Daniele Silvestri ha affermato che il testo di Argento Vivo ha preso le sue mosse non tanto dal suo essere adolescente, ma dal suo essere genitore: «Sono genitore di tre figli, di cui due adolescenti, di 15 e 16 anni. Ci sono entrambi, in quella canzone, anche se il brano è iperbolico ed estremo». Il brano inizia affermando «Ho sedici anni, ma è già più di dieci che vivo in un carcere». La prigione a cui fa riferimento il cantante è la scuola vista, dagli occhi provocatori ed estremi di un adolescente, come un carcere, la quale ha spesso difficoltà a penetrare nelle menti e nei cuori dei suoi discenti, perché vissuta dagli stessi come un obbligo, non come la porta verso il proprio futuro. Ecco che le parole del ragazzo, volutamente esasperate, raccontano questo.
La canzone è stata scritta in prima persona: Silvestri non racconta i sentimenti di un adolescente, guardandoli dal proprio punto di vista, quello di un adulto, ma, proprio da adulto, prova a mettersi nei panni di questo adolescente in difficoltà. Da questo emerge un primo spunto di riflessione interessante: una figura educativa, sia essa un genitore, un insegnante, un operatore nel sociale ecc. per essere realmente efficace nel suo ruolo, non può non mettersi nei panni dell’altro, ponendosi in ascolto profondo ed empatico di chi si trova di fronte, accogliendo prima di porre un giudizio e facendo in parte suoi, i pensieri, le emozioni e le difficoltà.
Silvestri infatti, raccontando sempre questa canzone, afferma: «Spero di dare qualcosa da affrontare, cercando di entrare in una mentalità che non può non essere diversa dalla nostra».
Spesso ci si immagina la composizione musicale come un momento cui l’autore decide a tavolino cosa dire, un decidere razionalmente cosa voglio raccontare, cosa voglio portare a chi mi ascolterà. Molte volte però non è così, la composizione musicale, ma anche quella artistica, partono da una spinta a creare che proviene da un bisogno di cantare quelle parole, perché sono ciò che in quel momento risuona dentro me, per qualcosa che mi colpisce, perché voglio raccontare il mio dolore, la mia gioia.
La canzone è una costante, esattamente come lo è il nostro mondo: le parole si spostano tra una positività ed una negatività costante, dove il progresso porta al regresso, dove il contatto porta alla disconnessione. Un testo crudo e aggressivo ma non distruttivo: la crudezza di un gesto, di una parola, non porta necessariamente ad una distruttività. Ci sono più parolacce nel testo di Silvestri che in quello di Achille Lauro, sempre rimanendo in tema Sanremese, eppure il messaggio conclusivo dei due brani è diametralmente opposto. Il primo porta ad una riflessione anche amara del conflitto adolescenziale, la seconda a un’esaltazione edonistica della vita materiale.
È bello trovare all’interno di un evento sostanzialmente mondano, come quello di Sanremo, l’occasione di trarre un messaggio di crescita, probabilmente voluto e cercato, ma non così esaltato. Ciò che ci preme sottolineare in questa sede è che, ovunque, anche in una situazione apparentemente lontana da ciò che ci si aspetterebbe, è possibile, se si tiene attento lo sguardo, estrarre una possibilità che porta alla crescita dell’altro; anche a Sanremo, con le sue luci, il suo palcoscenico così cangiante e allo stesso tempo evanescente, è possibile trovare un messaggio per chi si occupa dell’altro nel suo lavoro e nella sua vita.
Testo di Mattia Tagliani